La Radura
di Giuseppe Picciariello

-Vieni qui, maledetto cane!- l’urlo lo segue, lo afferra nella sua morsa d’odio, gli percorre le membra come una scarica d’elettricità.
La luce e le tenebre.
E il Bosco prende vita, sotto i suoi piedi, tutt’attorno a lui, sul suo capo sferzato da aghi gelidi e dal vento selvaggio del profondo Sud. Rami contorti provano ad afferragli le membra, a tirarlo con sé nella fossa, nel baratro, nel luogo senza luce né voce da cui non potrà più uscire.
“Ritorna alla Terra, piccolo sciocco”. Sente la Voce atavica sibilare nelle sue orecchie, portando con sé il sapore alieno di un’altra epoca, di un’altra realtà.
Continua a correre. Avverte il suo cuore battere, e pare che il fagottino che stringe al petto stia palpitando al ritmo del suo respiro, fondendosi col suo corpo in un legame indissolubile.
“Devo raggiungere il villaggio, per tutte le Stelle! La Strega saprà cosa fare con il mio amico.”, pensa ansimando, mentre una disperazione divorante si sta impossessando di lui. “Questo dannato intrico di alberi non finirà mai!”.
Due occhi annebbiati, pulsanti, vagano sull’universo buio e ridondante. Ticchettio sulle foglie, passi in lontananza, urla e imprecazioni, il peso del fagottino tra le sue braccia che diviene via via più consistente, un maglio che si alza e si abbatte, ancora e ancora: il suo cuore.
Il suo tempo sta scadendo. La radice della Quercia Secolare gli afferra la caviglia, lo richiama a sé: inciampa, rovina al suolo, si rialza e riprende la sua fuga, verso il nulla, verso l’ignoto. L’occhio della mente è puntato sulla clessidra: tra un istante i Cacciatori lo afferreranno e lo appenderanno ad un albero, portandogli via il fagotto, l’esserino indifeso che vi abita, lasciandolo solo con il bagliore del lampo e il tono roco del tuono. La sua impresa sarà vanificata, cancellata per sempre. Altro sangue disseterà le terre del Sud.
-Eccolo! Ecco il bastardo- una fitta al fianco, si volta e scorge sagome scure, enormi che gli si fanno incontro da tre lati: sembrano uscite dal peggiore dei suoi incubi. -Fermati, ragazzo! La tua corsa è finita!
Una luce, lontano. Una radura. Le gambe stanno per crollare, per disgregarsi come un castello di sabbia abbattuto dalle onde. Con un ultimo balzo, approda nella radura: sente le forze venirgli bruscamente meno, avanza carponi verso un tronco rovesciato e vi si appoggia per affrontare il nemico. Deposita il fagotto al suolo, dietro il proprio corpo.
Tempo scaduto.
Sghignazzano, urlano, lo insultano. È solo uno stupido moccioso sentimentale: che diavolo ci voleva fare col piccolo drago? Mangiarselo con le patate?
Avanzano. Enormi cicatrici su visi barbuti, patibolari. Il baluginio di una lama.
Un pallido sole si affaccia sulla radura. Poi, d’un tratto, cala la notte. Una notte nero antrace, svolazzante. Tutti, nella radura, alzano gli occhi al cielo.
Sembra che le nubi gli stiano rovinando in testa. Si sente sollevare, in alto. Sotto il braccio regge ancora il fagottino. Sta volando verso il sole, quando nella radura cala un’improvvisa, assordante oscurità.

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